mercoledì 31 ottobre 2018

Quel che resta



«Hai visto che gol Saponara? Peccato non sia servito a niente. E anche quello di Quagliarella, alla fine di un'azione con una trentina di tocchi di prima. Inutile anche quello». Questo ti ho detto oggi, davanti a te, con l'ombrello in una mano e il cappello nell'altra, anche se pioveva. Mi ero tolto il cappello all'ingresso anche se attorno a me lo tenevano tutti, ma tu mi avevi insegnato diversamente. Il rispetto, l'eleganza, la decenza, il rigore verso se stessi come precondizione per esigerlo dagli altri. Non ho imparato abbastanza, sono stato uno studente anomalo e incostante e tu eri la materia più bella e difficile.
Questo ti ho detto, dei gol del Doria a Milano, o meglio ho pensato di dirti, immaginandomi anche la risposta, devo allenarmi a farlo. È la seconda volta che vengo a trovarti, non più a casa nostra che adesso è diventata davvero troppo grande, più grande anche di quando ero bambino e la misuravo alla mia dimensione. È ancora strano venirti a trovare dove da bambino mi avevi portato tante volte, alla fine della festa del Soccorso e poi appunto in questi giorni, quindi a scadenze ravvicinate. Tanto che conosco a memoria il percorso fatto insieme con te, a farmi vedere i volti di coloro che erano vissuti prima di noi.
C'erano già tanti nostri vecchi quando ero bambino, i tuoi nonni e zii di parte materna subito entrando sulla destra, poi i tuoi nonni paterni lassù, gli sguardi lontani lui come di bimbo inconsapevole, lei come di donna austera e impassibile. Poi cominciava la sequenza dei tuoi zii, il primo sulla destra ammazzato in quel modo orribile da gente orribile, per molti anni lui e sua moglie sono rimasti soli, ora nei mesi scorsi con una specie di oscuro girotondo d'amore lo hanno raggiunto uno dietro l'altro tutti e tre i figli, anche se l'ultimogenito sta con la sua bimba al piano superiore, non lontano dai suoi e tuoi zii, quello dell'incidente stradale e quello che fumava troppo. Quello del bombardamento aereo sta poco più in là, vicino al più piccolo, “u figgeu” come diceva tuo padre. Quante volte abbiamo fatto insieme questo percorso sul ghiaietto, e tu mi indicavi i volti di alcune persone e me ne raccontavi la vita con le tue parole, ora tu sei diventato l'ultima tappa del percorso e così stavolta sono venuto a parlarti del gol di Saponara perché almeno avremmo parlato d'altro. Abbiamo passato gli ultimi anni nostri insieme come i primi, parlando di calcio per parlare d'altro, rispetto alle fatiche della tua giovinezza e a quelle della tua vecchiaia. Fatiche che hanno finito per piegarti, per sottrarti al destino di vivere almeno quanto tuo padre.
Ha piovuto tutto il tempo, dalla stazione alla casa diventata troppo grande, al cammino incongruo tracciato attraverso quella che una volta era la Tubifera, al posto del tuo capannone c'è una piscina e un prato e una collina artificiale, e poi finalmente sull'Aurelia com'era. Sulla piazza della chiesa ci sono la drogheria tale e quale ai tempi in cui c'eravamo ancora quasi tutti, la casetta antica accanto, e poi da lì la strada è corta, due settimane fa non ho avuto neanche il tempo di capire che cosa fosse quella camminata di accompagnamento che già eravamo arrivati. Ha sempre piovuto, una pioggia leggera da cappello appunto, l'ombrello come caduceo, l'idea di prendere un caffè al bar della piazza che si chiama come quello di Chiavari dove andavamo a giocare la schedina, ma poi ho rinunciato al caffé, se no avrei dovuto parlare con qualcuno che non eri tu ma che di te mi avrebbe chiesto. E mentre ti parlavo di due gol inutili mi sono vergognato per non essere riuscito ancora a sistemare per bene la tua nuova casa, mancano una porta come si deve e la foto che sai, ma in questi giorni mi sono cascate addosso troppe cose e ne sei consapevole, ti sei sempre preoccupato che io non avessi troppe incombenze a cagione tua e vostra a forza di esonerarmene e occupartene come potevi mi trovo adesso con un discreto arretrato, ma tocca a me e ci mancherebbe altro. È bello parlarti però e intuire le risposte, perché insomma ci siamo praticati e conosciuti abbastanza a lungo, quindi quando ti dicevo una cosa era come giocare a tennis, anzi a tennistavolo.

Già, il tennistavolo, lì ho capito che c'era qualcosa di ineludibile tra noi. Può sembrare stupido che si comprenda molto di quel che lega padri e figli per via del tennistavolo, ma a me capitò un pomeriggio ai tempi del ginnasio, un compagno di scuola aveva la chiave della sede della lega navale di Chiavari, e c'era il tavolo da gioco, io non avevo mai tenuto in pugno una racchetta, provai tanto per provare, be' quel giorno stesso ero già in grado di battere gli altri che giocavano da tempo, quando alla sera te lo raccontai orgoglioso, mi dicesti che tu da ragazzo a San Bartolomeo eri il più bravo di tutti a tennistavolo. Qualcosa da te ho preso, non abbastanza forse ho sempre sospettato, stupidamente pensavo che la mamma avrebbe fatto meglio a lasciarti tutto lo spazio possibile, senza prendersi quella ovvia metà che a tutti si trasmette. Ma ho cercato lo stesso di impararti, spiandoti quando non eri impegnato a educarmi. Così sono venuto qui, in questo strano giorno che vedrà dal tardo pomeriggio nel carruggio di Lavagna, nel carruggio di Chiavari, a De Ferrari e in San Lorenzo frotte di bambini vestiti da diavoli, da scheletri, da fantasmi inscenare una infernale sardana giocosa che non ha niente a che vedere con quel che siamo stati, nella prospettiva di una colonizzazione dell'inconscio. E mentre rientravo nella mia casa che adesso è più vuota anche lei, perché il telefono accanto alla tastiera non squilla più nel primo pomeriggio e alle otto di sera, ho pensato di aver fatto bene a non portarti nemmeno un fiore. Perché i fiori sono morti, una volta che li recidi muoiono, non attingono più acqua alle radici, sono assenze offerte alle assenze e non è questo che voglio, non è questo che avresti voluto. La prossima volta speriamo di parlare di qualche altro bel gol magari per una vittoria, e magari di tutto quel che non ci siamo detti in tutti questi anni che ci siamo parlati anche tacendo, anche solo con uno sguardo. È tutto quello che posso fare, adesso: cercare in me quel che resta di te, in te di me.

lunedì 22 ottobre 2018

Piccoli equivoci senza importanza



Come sono curiose le cose. È una tua frase, ma anche in quello che sto per scrivere c'entri tu. Stamattina ero uscito tardi, non avevo voglia di fare quel che avrei dovuto fare, ovvero la raccomandata alla compagnia telefonica per la disattivazione, dopo una quarantina d'anni, della linea su cui sono corsi miliardi di parole anche mie, e qualcuna perfino tua, per fare diventare quel numero un “numero ormai”, anche questa è una tua locuzione.
E allora sono andato da Crobart a far stampare le copie di due carte d'identità e di un certificato del comune, e questa cosa mi ha messo una grande tristezza. Così andando verso la posta centrale mi sono fermato agli Specchi, e come sempre ho dato un'occhiata ai giornali, e su “Repubblica” ho visto che c'era l'annuncio di un tuo inedito, o meglio di un inedito che non era proprio un inedito, insomma quella storia del Capitano Nemo di cui si era parlato tante volte, avevi tutto il paginone della cultura in tuo onore. E allora ho posato il giornale e pagato il caffé, lo avrei comprato all'edicola e letto con calma alla sera, poi sono andato alla posta. Era tanto tempo che non spedivo una raccomandata con ricevuta di ritorno, non sapevo dove cercare i moduli, ho vagato qua e là tra i funghi con le rastrelliere dei moduli di versamento, dei vaglia, di questo e di quello, poi ho finalmente trovato il fungo giusto, e quando ho preso il modulo giusto abbassando lo sguardo ho visto che c'era una copia di “Repubblica”, fresca fresca nuova nuova, posata in modo che se ne vedesse la metà inferiore e quindi col richiamo sul tuo inedito in bella vista. Mi sono guardato attorno, se ci fosse qualcuno che se ne fosse dimenticato, ma non c'era, o forse era andato via. Un giornale dimenticato alle poste, sembra uno degli oggetti incongrui che pullulavano nei tuoi racconti. E io ero lì, per chiedere la cessazione della linea telefonica su cui mi avevi chiamato per la prima volta, e aveva risposto mia madre perché io ero in redazione, quasi una trentina di anni fa. Ora non c'è più la redazione, mia madre è ridiventata la bella bambina bionda che era da piccola, tu chissà dove sei. E mi fai di questi scherzi, mi mandi questi saluti dalla tua lontananza, mi aiuti a credere che non tutto finisca quando tutto finisce. Così quando ho preso la copia del giornale abbandonato e me la sono messa in tasca ho pensato che anche questo fosse un piccolo equivoco senza importanza.

venerdì 19 ottobre 2018

Nel paese delle nuvole che non portano pioggia




Quando mi guardi, per molti dettagli ho come l'impressione di essere guardato da uno specchio; e a uno specchio non si può dire nulla che già non si sappia. Fino a qualche giorno fa non sapevo che cosa dirti, non sapevo che cosa mi avresti detto e quale significato trarne, cercare di decodificare i tuoi segnali in arrivo da una vicinanza sempre più lontanissima usando sempre una specie di setaccio tipo quello dei cercatori d'oro, per discernere le rare pagliuzze luccicanti, oramai assediate da un principio di ossidazione chimicamente incomprensibile, dai sassolini e dai cocci di bottiglia e magari dalle bisce d'acqua. Fino a qualche giorno fa non sapevo che cosa dirti, adesso non so come dirti qualcosa. Quando mi guardi dal tuo specchio, che non è uno specchio ma sei tu, e chissà se vedi me davvero, chissà che cosa vedi, finisce che ti dico sempre le stesse cose, le stesse parole, come monete fuori corso emesse da uno stato che non esiste più. Così non ti dirò neppure la cosa che non c'è bisogno di dirti, l'hai capita anche senza capirla, l'hai intuita in qualche modo e mi guardi come per raccomandarmi di non preoccuparti, la tua preoccupazione anzi la vostra era che io non mi preoccupassi, ed eccomi qui, a non dirti nulla. O meglio a dirtelo senza dirtelo, ma lo sai già e non lo sai, nel paese delle nuvole che non portano pioggia.

lunedì 15 ottobre 2018

Voce giunta con le folaghe




Quando mettemmo a nanna tuo padre, eri molto triste e alla sera mi presentai a casa con una bottiglia di Brunello. Ti chiesi di brindare a tuo padre, che aveva vissuto una vita lunga e fortunata tra le sfortune. E così bevemmo alla memoria di Ture. Oggi sono stato io a mettere a nanna te, alla fine dei tre giorni più aspri e tormentosi e orgogliosi della mia vita. Avevi una decina d'anni meno di tuo padre, a settembre il cardiologo ti aveva detto che saresti arrivato a cent'anni e invece è stato proprio il cuore ad azzopparti. Ma io lo so che non è stato il cuore, ma tutto quello che avevi tribolato da quando si era ammalata la mamma. Ora ti posso dire che mi è capitato più volte di incontrare a una cena o a una conferenza alcune ragazze che si erano innamorate di te, ed erano donne ancora molto belle, anzi diciamo pure bellissime, sai di chi parlo, e mi guardavano e mi chiedevano se fossi tuo parente, e io ero fiero di assomigliarti almeno nel nasone, almeno negli occhi, almeno nelle sopracciglia. E io pensavo a quella bambolina bionda che sembrava un angiolino, e che ti aveva portato via a tutte queste signore che avrei incontrato nel tempo, chiedendomi che cosa sarebbe stato di me se non ti fossi innamorato della bambolina bionda che non volevi lasciare, neppure dopo più di mezzo secolo. Sarei stato diverso, non sarei stato io, sarei rimasto un'ipotesi. Invece sono qui, a pensare a te, anche perché da sabato non posso più telefonarti, anche perché il tuo telefono me lo hanno restituito nella stanza degli infermieri nella stessa sacca con cui eravamo andati al pronto soccorso una settimana fa, l'ho spento e non lo riaccenderò mai più. Ed è buffo che l'ultima volta che ti ho visto vivo, l'ultima volta che ci siamo parlati, tu come sempre mi hai rimproverato di non aver fatto le cose al meglio, come le avresti fatte tu, e quasi sempre avevi ragione, però insomma stavolta non era proprio così. Tu mi dicevi, con la voce che ti era rimasta, che ero stato il solito allarmista, che non avrei dovuto farti ricoverare, anzi adesso avresti chiamato il primario per chiedergli di farti andare a casa, non potevi lasciare sola la mamma. Poi invece purtroppo non ero stato il solito allarmista, e così la mattina dopo quando mi hanno telefonato da uno 0185, ero davanti al Park di ritorno da una passeggiata sul mare, e mi hanno detto che ti eri aggravato, ho capito che non sarei riuscito a guardarti negli occhi ancora una volta, sono corso alla stazione sapendo che cosa sarei venuto a fare. E quando ti ho visto, scostando la tenda del tuo letto 32 al quarto piano, ho pensato che avrei voluto dirti: vedi che non ero poi così allarmista? Ti sarebbe piaciuta come battuta. A volte ti piacevano le mie battute, le tue invece mi erano piaciute da sempre, cercavo di studiarti nei momenti in cui non cercavi di farmi da maestro. Quando i tuoi amici mi dicevano che ti assomigliavo, ero contento, anche se sapevo che non era possibile assomigliarti davvero. E insomma così sono andato a casa a prenderti il vestito, e appena aperto l'armadio mi sono intenerito perché c'era un vestito scuro messo da parte, in bella vista, tra le camicie, come se non mi potessi sbagliare, e la cravatta e la camicia sullo stesso appendiabiti, avevi pensato a tutto. Amavi pensare a tutto, non lasciare niente di improvvisato, in questo proprio non ci assomigliamo. Alla bambina bionda non ho detto nulla, da cinque anni e mezzo ormai sta sulla sua nuvola, non è più bionda ma ha ancora quel sorriso tenero e indifeso, non so dirti se abbia capito. Quando si ammalò tu mi dicesti: siamo stati mezzo secolo insieme, io non l'abbandono, piuttosto affondiamo affiancati. Invece non ci sei riuscito, almeno questa cosa l'hai calcolata male, perché con l'idea di non lasciarla sola alla fine l'hai lasciata sola davvero, immolandoti a questa romantica idea di dedizione, e quanto avresti invece potuto ancora vivere, tuo padre era arrivato a novantasei anni e io credevo che tu saresti riuscito a superarlo. Ma in questi momenti, in cui ti scrivo soprattutto per scrivere a me stesso e per superare la desolazione e il vuoto, devo essere sincero e allora ti devo confessare che avevo perso da tempo questa speranza che tu arrivassi a cento e oltre, troppo ti eri logorato per preservare quel che restava della tua bambina bionda, ma io non sono mai riuscito a convincerti a salvare almeno te stesso. E adesso mi manchi, e al tempo stesso sono risentito, perché ti sei rubato a te stesso, mi hai rubato quel tempo che avrei ancora voluto passare con te. Ma non posso essere risentito con te e quindi ti chiedo scusa, sai l'ora è tarda e gli ultimi tre giorni sono stati quel che sono stati, e sai che avevo sempre otto in condotta e non sono mai riuscito non dico a essere perfetto o almeno a provarci, e poi discutere con te era impossibile perché non si vinceva mai. Sapevo che eri molto amato e molto ben voluto, ma tu sapevi anche che io sono introverso e timido, invece mi sono trovato al fronte, a reggere l'onda di tutto l'affetto che ti eri meritato, e che ora mi tornava nella forma delle persone che venivano a salutarti. Però almeno questa non eri tenuto a risparmiarmela, sono semmai io che te la dovevo, come ti dovevo tante altre cose, in questo momento mi sento in grande debito con te e credo che mi ci sentirò sempre. Poi è strano questo moto ondoso della vita che ti porta, nella sua insondabile risacca, davanti a una specie di caleidoscopio che riassume la tua e la mia esistenza: l'uomo che ti ha annodato la tua ultima cravatta era il ragazzo che con me era venuto a San Siro a vedere Chiorri, e tutti e due il giorno prima per avere il permesso avevamo detto ai rispettivi padri che ci avrebbe accompagnato il padre dell'altro. L'uomo che invece ha saldato l'involucro di zinco era il mio solo compagno delle medie che tifasse la nostra stessa squadra di calcio. Tra tutta la gente ho visto anche la mia maestra delle elementari, io la chiamo sempre “signora maestra”. E una ragazza a cui non avevo mai saputo dichiararmi, e un'altra a cui volevo farlo ma forse no, quando si è giovani non si sa bene cosa sia giusto fare e che cosa no, oggi io e loro abbiamo più ricordi che speranze ma è normale quando si scavalla la mezza età. Oggi sotto il platano ho visto anche il tuo amico d'infanzia di cui negli ultimi tempi mi chiedevi sempre, che avevi accompagnato a fare il provino per la Sampdoria dove lui era arrivato a giocare in serie A, finalmente l'ho visto dopo un mucchio di anni, ma non posso più dirti che l'ho visto. Non posso più fare accadere molte cose tra noi, devo affidarmi all'immateriale, devo credere che tu leggerai queste cose che ti sto scrivendo. Te ne avevo scritte altre, stamattina in treno venendo da te, mi spiace ma anche in questi tre giorni sono sempre tornato a dormire a Genova, la casa dove ero nato ha visto troppo dolore perché io mi ci possa soffermare adesso. Ti avevo scritto una cosa che volevo leggere in chiesa, alla fine della funzione, nella chiesa di San Bertumé dove ti avevo riportato, seguendo il tuo cuore, ora che penso al cuore trovo sarcastico che un uomo dal cuore come il tuo sia stato fermato proprio dal cuore. Ti avevo scritto una cosa che cominciava con «Chi sarei stato io, se non avessi visto gli occhi di coloro che vissero prima di me?», l'avevo pensata ieri pomeriggio, ti avevo lasciato nella tua stanza alla morgue ed ero andato ai piedi della collina per vedere dove ti avrebbero messo, e il posto non era lontano dagli occhi che torno spesso a guardare, gli occhi di tuo nonno di cui neppure tuo padre sapeva molto. Era una cosa che cominciava con Sokurov, la bellezza salvata dal male, e finiva con due versi di “Voce giunta con le folaghe”. Pensavo che saresti stato contento, ma poi ci ho ripensato e ho creduto che non fosse il caso di polarizzare una cosa che doveva essere soltanto tua, così ho piegato il foglietto per mettertelo nel taschino della giacca. Ho sollevato il velo, non c'era nessuno in quel momento, ma il taschino era cucito e così ti ho alzato il risvolto della giacca e quel foglietto te l'ho messo sul cuore, di tempo per leggerlo ne avrai. Adesso sono tanto stanco, ho stretto centinaia di mani e abbracciato centinaia di persone e baciato centinaia di volti, perché toccava a me farlo, adesso sono tanto stanco e mi fa male non poterti telefonare per dirti quanta gente ti abbia voluto bene. Allora ho fatto come sedici anni fa, tornando a casa al supermercato ho preso una bottiglia non di Brunello perché non c'era, sempre comunque rosso toscano, ed eccomi qui a brindare da solo, davanti a una sedia vuota, sul tavolo che avevi costruito tu, al figlio di mio nonno, che ha vissuto una vita lunga e fortunata tra le sfortune. Non credo di essere stato un figlio esemplare, aver avuto te come termine di confronto è stato bello, molto impegnativo certo, ma siamo un albero dai rami lunghi e dai frutti difficili. Bevo un bicchiere di rosso toscano perché sono felice che tu ci sia stato tutto questo tempo, perché sono triste che il nostro tempo sia finito, perché avevo fatto questa cosa per tuo padre e ora la faccio per il mio. E ti saluto con le parole che avrei voluto leggere davanti a tutti, ma poi ho pensato di no e te le ho messe sotto la giacca, mi avevi insegnato ad amare la letteratura e la musica e l'arte e ti dovevo un congedo in linea con quello che era stato tra noi. A tuo padre, ti ricordi?, avevo messo il biglietto con le parole «vecchio padre, vecchio artefice, facci ora e sempre buona guardia». Quando si è trattato di te, ho pensato al racconto che mi avevi fatto della volta che durante la guerra eri uscito indenne da un campo minato a Pian Pontasco. Ti eri salvato, per arrivare alla bambina bionda, a noi, a me che ora non so come farò, senza averti che in idea e nostalgia. E avevo scritto le parole di Montale che ora porti sul cuore: “Ho pensato per te, ho ricordato per tutti. Ora ritorna al cielo libero che ti tramuta”.

mercoledì 3 ottobre 2018

Il bancario, il sindaco e i Koryak della Siberia Orientale


Mentre un direttore di banca friulano viene condannato per aver erogato prestiti ai clienti meno abbienti attingendo dai conti dei correntisti più facoltosi, un sindaco calabrese finisce agli arresti con l'accusa di aver organizzato e celebrato matrimoni finti per il permesso di soggiorno.
Da Udine a Locri non c'è distanza, almeno nella visione dei due personaggi interessati, convinti che la legge possa e anzi debba essere aggirata o meglio violata, purché «a fin di bene».
Infatti sui media i protagonisti della vicenda vengono trattati benevolmente, con simpatia prossima all'agiografia, come due romantici giustizieri ribelli impegnati nella causa del bene contro il male.
Tocca allora ricordare come la legge nasca proprio per raggiungere un punto di mediazione, il meno approssimativo possibile, tra le molteplici visioni di bene e di male, che non sono fatti ma valori e come tali relativi.
Un solo esempio. In alcuni Stati l'infedeltà coniugale è punita per legge, in molti Paesi è un comportamento che desta semplice riprovazione sociale, in talune comunità o popolazioni l'uomo accoglie l'ospite offrendogli in regalo una notte con la moglie, con il caso limite dei Koryak stanziati in Siberia orientale: il rifiuto da parte dell'ospite è offesa talmente grave da contemplare la vendetta di sangue in segno di riparazione.
E veniamo al bancario e al sindaco.
Il primo ha dimostrato di tener poco conto delle regole elementari su un istituto giuridico canonico come la proprietà privata. È noto che per alcuni la proprietà privata sia un furto, per altri sia invece un diritto intangibile. La nostra Costituzione non sceglie né l'una né l'altra strada, nell'articolo 42 in cui ne delinea i «limiti» e la «funzione sociale», affidati a legge ordinaria. Nel nostro ordinamento, tuttavia, è illegale per il custode del denaro altrui farne un uso arbitrario a beneficio di terzi, sulla base della fiducia nella tempestiva restituzione.
La legge non risponde esplicitamente alla domanda valoriale se la proprietà privata sia o no un furto oppure, come dice Antonio Negri, «disdicevole». Ma la riconosce.
Quanto al sindaco, gli stessi che si affannano a spiegare come l'immigrazione non sia un problema, perché fenomeno aritmeticamente marginale, non fanno che parlare di immigrazione finendo per ingigantire loro stessi un tema che pure vorrebbero secondario. Non è colpa del sindaco se il suo esperimento sociale, che fondava la sua presunta riuscita anche sui numeri limitati, era stato appunto stentoreamente presentato al Paese e al mondo come modello virtuoso, da contrapporre alla gretta e miope chiusura dei flussi. Ma se adesso vengono fuori vicende incommendevoli, come zitelloni e perfino disabili arruolati per nozze di comodo, fino al paradosso (scoperto ab origine e fonte primigenia dei guai) del fratello della compagna etiope ingaggiato come pseudo-sposo della sorella ai fini di aiutarlo ad arrivare e restare in Italia, la favola non sembra avere lieto fine e comunque non è una favola.
Che cosa c'entra la legge? C'entra perché è il tentativo, forzosamente imperfetto, di regolare nel modo più lineare e indolore la convivenza. E la nostra legge dice sia che i soldi degli altri non si toccano senza che i proprietari lo sappiano, sia che i matrimoni fasulli sono reato.
A poco valgono le attenuanti della buona fede, peraltro assente (entrambi sapevano di commettere illeciti), o della nobile causa.
Chi stabilisce, infatti, che sia “nobile” una causa piuttosto che un'altra? Mai come nella nostra epoca corrono due visioni contrapposte della società, quantitativamente difficili da definire: c'è chi pensa che i popoli debbano mescolarsi il più possibile e chi invece pensa che ogni popolo debba preservare in assoluto la propria identità. Chi può dire quale delle due visioni sia quella “buona”, quale quella “giusta”? Nessuno. Si tratta di giudizi di valore. La legge esiste proprio per mediare tra gli innumeri giudizi di valore. E non esiste più il rischio che una legge formalmente valida ma sostanzialmente aberrante, come le famigerate leggi razziali, possa entrare in circolo nel sistema: esiste una Costituzione rigida molto ben scritta e ricca di garanzie, e a vigilare sulla Costituzione c'è un apposito organo giurisdizionale che giudica le leggi, cancellando quelle contrarie ai principi costituzionali.
Infrangendo il principio per cui la legge va rispettata, specialmente quella sgradita, si apre la strada al caos. Con quale diritto il bancario di Udine o il sindaco di Locri, domani, potrà dire che sbaglia l'automobilista che corre a 220 in autostrada «perché la mia fuoriserie è potente e sulla terza corsia non c'è nessuno»? Il contribuente che froda il fisco «perché le tasse sono troppo alte ed è ingiusto essere sottoposti a una simile pressione tributaria»? Il passeggero che non fa il biglietto sul bus «perché il servizio fa schifo e non è giusto che venga pagato»?
Se ognuno si ritenesse titolato a decidere da solo che cosa sia bene e che cosa sia male, per se stesso e per gli altri, non ci sarebbe neanche bisogno di uno Stato. Qualcuno sostiene che sarebbe meglio, ma a permettergli di dirlo senza che nessuno glielo proibisca è appunto lo Stato, con le sue leggi costituzionali e ordinarie sulla libertà di opinione e di parola. Se ognuno si ritenesse titolato a decidere da solo che cosa sia bene e che cosa sia male, per se stesso e per gli altri, nel giro di poco tempo servirebbe qualcuno che facesse ordine in tutta questa confusione di persone, ognuna delle quali convinta di sapere che cosa sia bene e che cosa sia male. E saremmo daccapo.

domenica 23 settembre 2018

Sei come un juke box



La domenica è il giorno delle omelie, non solo nelle chiese.
Le prediche si trovano infatti nei quotidiani, di regola in prima pagina.
A leggerle se non tutte almeno gran parte, si fatica a dissolvere un'impressione.
Ovvero: il perfetto unanimismo, la totale prevedibilità, l'integrale allineamento. Leggi il titolo, leggi la firma sotto il titolo: sai già perfettamente che cosa troverai a seguire nel commento, nell'editoriale, nel racconto settimanale.
Asserzioni perentorie condotte a colpi di indignazione civile, di rivendicazione valoriale, di autocertificazione etica.
Eppure una volta il compito degli intellettuali era quello di provare a vederci più lungo e meglio degli altri.
Studiare il pensiero corrente, le opinioni dominanti, i cosiddetti “luoghi comuni”.
Procederne allo smontaggio, all'analisi metodica delle componenti, degli ingranaggi, dei pezzi più piccoli.
Sempre in base al principio del dubbio. Dubitare sempre, dubitare di tutto, dubitare anche di se stessi.
Quindi, una volta visto più lungo e meglio, rivolgersi agli altri: per provare a convincerli di quel che, grazie alla loro superiore capacità di discernimento, avevano visto.
L'incomunicabilità assoluta è il tratto distintivo del nostro tempo.
Lo scambio di idee, la dialettica costruttiva hanno lasciato spazio alla sterile contrapposizione di immutabili bagagli di consolidati pregiudizi, che da una base ideologica sconfinano in una prospettiva antropologica, fino al disconoscimento non già delle ragioni, ma della stessa identità e anzi personalità dei portatori di diverso sentire.
Per questi motivi annoia e rattrista la lettura domenicale dei quotidiani, traasformati in juke-box che suonano sempre e soltanto gli stessi dischi per ascoltatori che vogliono sempre e soltanto la stessa musica, fino a convincersi che oltre la musica che piace a loro non ci sia musica, anche se non ne hanno mai sentita, o voluta sentire, o addirittura provare a capire, di diversa.

L'intellettuale non dovrebbe cadere nella tentazione del conformismo. Una tentazione che, certo, facilita l'accesso a posti e prebende. Ma un intellettuale non è per sua natura conformista. Diversamente non è un intellettuale. Ma, appunto, un juke box a gettone. Cento lire a canzone.

domenica 9 settembre 2018

Intrigo a Stoccolma



Va bene, ammettiamo pure che abbiano ragione quelli che dicono che gli italiani, in fondo in fondo, erano già fascisti prima del fascismo e dopo lo sono rimasti, nascondendosi più o meno astutamente per qualche decennio, con qualche trascurabile cedimento tipo le volte che sono andati al governo Prodi, D'Alema, Letta e Renzi, anche chi li aveva votati era fascista ma si era distratto un attimo.
Va bene, l'Italia è fascista, pazienza per quei pochi italiani che non lo sono. Credo peraltro che questo teorema assolutizzante valga soltanto declassificando il fenomeno storico del fascismo a semplice categoria contingente, allora sì che funziona: gli esseri umani in generale, ma gli italiani in particolare, amano andare a rimorchio del potente di turno, salvo scaricarlo con particolare ferocia autoassolutoria non appena il potente di turno abbia perso il potere.
Se l'Italia è inguaribilmente fascista, col resto d'Europa come la mettiamo? Specie adesso che l'aria che tira in tutta Europa ha preso a tirare anche in Isvezia, terra promessa della socialdemocrazia e dello Stato sociale realizzato, e insomma unico Paese dell'Europa occidentale che veniva preso ad esempio dagli attuali fautori di una visione del mondo che sarà quella giusta, posso anche riconoscerglielo, ma se davvero è quella giusta non si capisce perché non piaccia a nessun popolo europeo, a parte - male non fa ricordarlo - i fascisti italiani. Non c'è un Paese, uno solo dove gli elettori abbiano premiato una certa linea.
Se dice basta perfino la Svezia, tradizionale modello di società progredita sotto tutti i profili e quindi anche sotto quello dell'accoglienza, sarà il caso di farsi qualche domanda, sarà il caso di cominciare a chiedersi se l'ideologia di "Imagine" (via gli Stati, via le frontiere) sia bella per scrivere una canzone nemmeno troppo bella, la più sopravvalutata (ecco, l'ho detto) della storia del pop, ma calata nella realtà sia un disastro?
Non lo dico io, lo dice la Storia che, se ha una costante dagli Hyksos a oggi, è la seguente: più alti sono gli ideali che l'umanità si è data, più rovinosa e luttuosa e catastrofica è stata l'applicazione pratica dei medesimi ideali. Siamo bestie imperfette, ormai credo sia assodato, e quindi dovremmo sempre pensare al male minore, al bicchiere mezzo vuoto, a tirare avanti alla bell'e meglio. Invece no, vogliamo il paradiso in terra e lo vogliamo sempre in modo sbagliato.
Vedi che cosa è successo nel secolo scorso, nel più vasto esperimento istituzionale di realizzazione della felicità in terra, esperimento che casualmente riscuoteva - e direi tuttora riscuota - non poco consenso in quelle stesse fasce di opinione oggi riconvertitesi al "via gli Stati, via le frontiere", per un moto dell'animo molto freudiano che ha a che fare - temo - con quell'odio verso l'Occidente coltivato appunto nel secolo scorso e oggi portato avanti, con indubbia coerenza, glorificando lo strumento che sembra più utile per cancellare l'Occidente, quando invece - purtroppo - ci penseranno i cinesi.
Di fronte a quel che accade in Isvezia, sarebbe il caso di cominciare a chiedersi che cosa ci sia di sbagliato in un certo modo di vedere la realtà. In particolare, di domandarsi perché la cosiddetta "integrazione" nella vecchia Europa di quote più o meno consistenti di popoli allogeni con altre tradizioni, altre culture, altre religioni, funzioni poco o addirittura non funzioni affatto, producendo prima disagio e poi ostilità più o meno aperta.
Qualcuno dice che non si faccia abbastanza per "integrare"; qualcun altro pensa che sia impossibile "integrare" chi non voglia affatto "integrarsi"; altri ancora pensano che la richiesta di "integrazione" in cambio di accoglienza sia irricevibile, con tutte le conseguenze del caso.
Di fronte a tutto questo, l'obiezione conclusiva è sempre fintamente sconsolata: "ma tanto le cose andranno così, non ci si può fare niente". Può essere, ma non tutte le cose necessarie sono di per sé buone. Basterebbe riconoscere questo, per salvare almeno la Svezia dalla realtà.