«Hai
visto che gol Saponara? Peccato non sia servito a niente. E anche
quello di Quagliarella, alla fine di un'azione con una trentina di
tocchi di prima. Inutile anche quello». Questo ti ho detto oggi,
davanti a te, con l'ombrello in una mano e il cappello nell'altra,
anche se pioveva. Mi ero tolto il cappello all'ingresso anche se
attorno a me lo tenevano tutti, ma tu mi avevi insegnato
diversamente. Il rispetto, l'eleganza, la decenza, il rigore verso se
stessi come precondizione per esigerlo dagli altri. Non ho imparato
abbastanza, sono stato uno studente anomalo e incostante e tu eri la
materia più bella e difficile.
Questo
ti ho detto, dei gol del Doria a Milano, o meglio ho pensato di
dirti, immaginandomi anche la risposta, devo allenarmi a farlo. È la
seconda volta che vengo a trovarti, non più a casa nostra che adesso
è diventata davvero troppo grande, più grande anche di quando ero
bambino e la misuravo alla mia dimensione. È ancora strano venirti a
trovare dove da bambino mi avevi portato tante volte, alla fine della
festa del Soccorso e poi appunto in questi giorni, quindi a scadenze
ravvicinate. Tanto che conosco a memoria il percorso fatto insieme
con te, a farmi vedere i volti di coloro che erano vissuti prima di
noi.
C'erano
già tanti nostri vecchi quando ero bambino, i tuoi nonni e zii di
parte materna subito entrando sulla destra, poi i tuoi nonni paterni
lassù, gli sguardi lontani lui come di bimbo inconsapevole, lei come
di donna austera e impassibile. Poi cominciava la sequenza dei tuoi
zii, il primo sulla destra ammazzato in quel modo orribile da gente
orribile, per molti anni lui e sua moglie sono rimasti soli, ora nei
mesi scorsi con una specie di oscuro girotondo d'amore lo hanno
raggiunto uno dietro l'altro tutti e tre i figli, anche se
l'ultimogenito sta con la sua bimba al piano superiore, non lontano
dai suoi e tuoi zii, quello dell'incidente stradale e quello che
fumava troppo. Quello del bombardamento aereo sta poco più in là,
vicino al più piccolo, “u figgeu” come diceva tuo padre. Quante
volte abbiamo fatto insieme questo percorso sul ghiaietto, e tu mi
indicavi i volti di alcune persone e me ne raccontavi la vita con le
tue parole, ora tu sei diventato l'ultima tappa del percorso e così
stavolta sono venuto a parlarti del gol di Saponara perché almeno
avremmo parlato d'altro. Abbiamo passato gli ultimi anni nostri
insieme come i primi, parlando di calcio per parlare d'altro,
rispetto alle fatiche della tua giovinezza e a quelle della tua
vecchiaia. Fatiche che hanno finito per piegarti, per sottrarti al
destino di vivere almeno quanto tuo padre.
Ha
piovuto tutto il tempo, dalla stazione alla casa diventata troppo
grande, al cammino incongruo tracciato attraverso quella che una
volta era la Tubifera, al posto del tuo capannone c'è una piscina e
un prato e una collina artificiale, e poi finalmente sull'Aurelia
com'era. Sulla piazza della chiesa ci sono la drogheria tale e quale
ai tempi in cui c'eravamo ancora quasi tutti, la casetta antica
accanto, e poi da lì la strada è corta, due settimane fa non ho
avuto neanche il tempo di capire che cosa fosse quella camminata di
accompagnamento che già eravamo arrivati. Ha sempre piovuto, una
pioggia leggera da cappello appunto, l'ombrello come caduceo, l'idea
di prendere un caffè al bar della piazza che si chiama come quello
di Chiavari dove andavamo a giocare la schedina, ma poi ho rinunciato
al caffé, se no avrei dovuto parlare con qualcuno che non eri tu ma
che di te mi avrebbe chiesto. E mentre ti parlavo di due gol inutili
mi sono vergognato per non essere riuscito ancora a sistemare per
bene la tua nuova casa, mancano una porta come si deve e la foto che
sai, ma in questi giorni mi sono cascate addosso troppe cose e ne sei
consapevole, ti sei sempre preoccupato che io non avessi troppe
incombenze a cagione tua e vostra a forza di esonerarmene e
occupartene come potevi mi trovo adesso con un discreto arretrato, ma
tocca a me e ci mancherebbe altro. È bello parlarti però e intuire
le risposte, perché insomma ci siamo praticati e conosciuti
abbastanza a lungo, quindi quando ti dicevo una cosa era come giocare
a tennis, anzi a tennistavolo.
Già,
il tennistavolo, lì ho capito che c'era qualcosa di ineludibile tra
noi. Può sembrare stupido che si comprenda molto di quel che lega
padri e figli per via del tennistavolo, ma a me capitò un pomeriggio
ai tempi del ginnasio, un compagno di scuola aveva la chiave della
sede della lega navale di Chiavari, e c'era il tavolo da gioco, io
non avevo mai tenuto in pugno una racchetta, provai tanto per
provare, be' quel giorno stesso ero già in grado di battere gli
altri che giocavano da tempo, quando alla sera te lo raccontai
orgoglioso, mi dicesti che tu da ragazzo a San Bartolomeo eri il più
bravo di tutti a tennistavolo. Qualcosa da te ho preso, non
abbastanza forse ho sempre sospettato, stupidamente pensavo che la
mamma avrebbe fatto meglio a lasciarti tutto lo spazio possibile,
senza prendersi quella ovvia metà che a tutti si trasmette. Ma ho
cercato lo stesso di impararti, spiandoti quando non eri impegnato a
educarmi. Così sono venuto qui, in questo strano giorno che vedrà
dal tardo pomeriggio nel carruggio di Lavagna, nel carruggio di
Chiavari, a De Ferrari e in San Lorenzo frotte di bambini vestiti da
diavoli, da scheletri, da fantasmi inscenare una infernale sardana
giocosa che non ha niente a che vedere con quel che siamo stati,
nella prospettiva di una colonizzazione dell'inconscio. E mentre
rientravo nella mia casa che adesso è più vuota anche lei, perché
il telefono accanto alla tastiera non squilla più nel primo
pomeriggio e alle otto di sera, ho pensato di aver fatto bene a non
portarti nemmeno un fiore. Perché i fiori sono morti, una volta che
li recidi muoiono, non attingono più acqua alle radici, sono assenze
offerte alle assenze e non è questo che voglio, non è questo che
avresti voluto. La prossima volta speriamo di parlare di qualche
altro bel gol magari per una vittoria, e magari di tutto quel che non
ci siamo detti in tutti questi anni che ci siamo parlati anche
tacendo, anche solo con uno sguardo. È tutto quello che posso fare,
adesso: cercare in me quel che resta di te, in te di me.